Una sera a Firenze

 In blog, Firenze

Quelle vacanze pasquali le stava trascorrendo in fuga solitaria. Aveva scelto Firenze, di cui sentiva l’afflato fin da ragazzina. I sussurri parevano esalare da ogni vicolo e facciata. Doveva tornarci e c’era tornata.

Tre giorni di stacco dalle incombenze quotidiane, dalla cura dei figli, dalle corse inseguita dalle lancette di orologi appesi al muro, avvinghiati al polso e trasudanti dal corpo che ricordava l’avanzare degli anni.
Due giorni di camminate e quella sera lo stomaco le ricordò che, aperitivo o cena, doveva mangiare. Si infilò in una strada che non aveva considerato e il suo ginocchio decretò lo stop. Si fermò e notò un uomo che armeggiava con la porta scorrevole del locale alla propria sinistra.
– Ma fino ad un minuto fa non aveva dato problemi! – emerse la voce dell’uomo rivolta a due ragazzi che si affaccendavano vicino al bancone.
Fishing Lab” recitava l’insegna. Lei diede un’occhiata all’interno, incontrò lo sguardo sorridente di lui e la porta si sbloccò.
– Ah ecco… Prego, si accomodi.
Un sorriso grande sotto a due occhi d’acqua che si stringevano a salutarla le porsero il passo per l’entrata.
Senza pensarci superò l’ingresso e smise di fuggire.
Un ambiente elegante ma vivo la avvolse in un brusìo piacevole e dinamico. I camerieri saettavano tra i tavoli centrali e quelli a muro con gli  sgabelli slanciati. Al piano superiore si apriva uno scenario inconsueto e disarmante. Volte medievali affrescate occhieggiavano dal passato sulla vita dell’umanità del ventunesimo secolo.
La sua espressione dovette apparire simile a quella di una bambina che guarda i palloncini di un ambulante, visto che il cameriere le si avvicinò con un sorriso che andava oltre la semplice cortesia.
– Si vuole accomodare? Un tavolo per…?
– Uno, uno… sola – si affrettò a rispondere.
– Prego, le va bene qui?
Lei guardò il posto indicatole, proprio al banco, con vista sulla plancia di lavoro della mescita del vino. Osservò le persone già sedute. Lunghe gambe di donne erano accavallate elegantemente e le loro proprietarie sorseggiavano vino dai riflessi mielati e rubino in compagnia di uomini distinti, e non poté fare a meno di notare l’alto sgabello su cui immaginò di arrampicarsi perdendo quel poco di femminilità che possedeva. In un attimo rispose affermativamente. Le piaceva l’idea di un punto di vista così da regista.
L’arrampicata andò meglio di come aveva immaginato.
Prese ad osservare i dettagli. Da sempre, aveva avuto modo di comprovare che i dettagli erano l’essenza delle cose e delle persone, perché, voluti o meno, indicavano le ombreggiature più evidenti della scultura dell’intima natura.
L’impressione che ricavò dai particolari di quel luogo fu quella di un insieme di contrappunti musicali che rendevano una piacevole sinfonia. Dalla scelta delle tovagliette ai sacchettini del pane, sistemati sul bancone nella loro chirurgica casualità, alle uniformi dei camerieri, per arrivare ai cestelli del vino, tutto rimandava una sensazione di un organismo vivo e pulsante.
Il cameriere le porse un menù graficamente accattivante nell’ironica essenzialità. Scivolò con la lettura sulle varie proposte e fermò la scelta su “buns di tonno”. Era una mezza porzione. Per lei andava più che bene.
Un’attesa di un attimo, malgrado il locale pullulasse letteralmente, e un vassoio in alluminio in forma di piccola teglia, foderata da un foglio che ricordava la pagina del The London Post, le mise sotto le mani un rotondo panino che aveva la grazia di una miniatura fiamminga. Una ciotola di patatine fritte gli offriva una simpatica compagnia.
Abituata com’era a fantasticare sulle cose, avrebbe giurato di aver visto il calice di Gewürztraminer che attendeva vicino al vassoio, fremere di uno scintillìo sidereo come gli occhi della strega di Biancaneve.
Prese la forchetta con devozione. Tastò la consistenza della superficie del pane. Ne constatò la croccantezza e posò subito la stoviglia. Le mani. Le mani avrebbero goduto di quel momento. E così infatti fu. Tra gli indici e i pollici disfece con cura la cupola del panino e se lo portò alla bocca. La crosta lasciò subito posto all’arrendevolezza di una mollica sapida e appena inumidita dagli umori che il tonno aveva rilasciato. Già. Il tonno. Privato del riparo del cappello di pane che lei aveva tolto, esalò un odore delicato e invitante. Ne separò una parte con il taglio della forchetta e lo assaggiò. Il Traminer non stette più in silenzio. Esigeva la sua parte.
Ne bevve con calma un sorso e non poté fare a meno di pensare allo slogan di una nota marca di yogurt. Era sola, ma le sembrava di essere in ottima compagnia in mezzo a lenzuola di seta.
La sua fuga, in quell’ultima sera a Firenze, si concludeva così, con un incontro che le sarebbe rimasto negli occhi, nel palato e nell’anima.
Il Traminer sorrideva soddisfatto, e chissà, forse, tra gli affreschi delle volte, anche Dante aveva smesso per un momento di avere quella solita faccia seriosa.

 

Arianna Piermattei

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